Yuanyang, la Cina fuori dal tempo

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Yuanyang è immersa in una quiete irreale, fuori dal tempo. Nonostante le sue risaie a terrazze siano state dichiarate patrimonio dell’umanità dall’UNESCO e Yuanyang “contea rilevante per lo sviluppo di un’industria culturale tipica” dal governo della RPC, attraendo così visitatori da tutto il mondo, la vita scorre tranquilla tra le viuzze di questi paesini semiaddormentati. Le risaie danno il meglio di sé all’alba e al tramonto, quando sembrano un mosaico di specchietti poggiati sui declivi, a disegnare forme imprevedibili nei cui contorni lo sguardo si perde. La sensazione è quella di essere in un’opera d’arte che si estende per più di 120 chilometri quadrati, solare sintesi della simbiosi tra uomo e territorio. Eppure gli abitanti del luogo, dell’etnia Haini, non devono aver avuto particolari preoccupazioni estetiche quando hanno costruito queste terrazze centinaia di anni fa, ai tempi delle dinastie Tang e Sui. Sono stati abilissimi nello sfruttare ogni centimetro utile della montagna realizzando vasche sottilissime o al contrario molto estese, per assecondarne la pendenza su oltre 3000 gradini. Le vasche vengono usate ancora oggi per la coltivazione del riso, separate l’una dall’altra da muretti di terra spessi una ventina di centimetri, su cui i locali passano con disinvoltura nonostante il rischio (per quelli come me) di cadere nell’acqua a ogni passo.

 

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Sono nella prefettura di Honghe, a circa 2500 metri di altitudine, nella provincia meridionale dello Yunnan. Giù a valle c’è il Fiume Rosso (Honghe, appunto), che da qui arriva fino al Golfo di Tonchino, in Vietnam. Sulla montagna sono appoggiati numerosi piccoli villaggi costruiti e ricostruiti secondo lo stile tradizionale. Molti hanno le stradine nuove e gli edifici dipinti di fresco, prova evidente dello sforzo che il governo investe nel mantenimento della zona per favorire il turismo cinese e internazionale. Infatti l’accesso ai punti d’osservazione più suggestivi è a pagamento: ci hanno costruito delle terrazze panoramiche di cemento, che nelle ore clou si affollano di fotografi amatoriali con obiettivi di mezzo metro ciascuno. Se da un lato la protezione della bellezza della montagna e di questi luoghi richiede sicuramente un impegno economico, dall’altro il suo godimento dovrebbe essere concesso a tutti. La montagna e la valle sono di tutti (o di quelli che ci vivono, al limite). In ogni caso, non ho nessuna intenzione di spendere questi 100 yuan – poco più di 10 euro, una discreta somma da queste parti, dove si può dormire con appena 20/30 yuan. Lascio che a farlo siano i gruppi di turisti cinesi che gli autobus vomitano direttamente sulle terrazze a intervalli regolari. Evito pure il “villaggio etnico”, sorta di parco dei divertimenti folkloristico dove i visitatori possono immergersi nella vita e nelle tradizioni di comparse pagate per vivere esattamente come facevano i loro antenati.

 

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Gli abitanti di Yuanyang non sembrano amare i turisti. O forse il loro carattere è solo diverso rispetto a quello dei dai, così aperti e solari, che ho incontrato nel Xishuangbanna, la prefettura meridionale dello Yunnan dalla quale sono venuta qui. La dura vita di montagna avrà forse indurito anche le persone? O magari sono solo gelosi della loro bella montagna? La mia ‘politica del sorriso’, che tanta cordialità ha suscitato in questo viaggio, riceve qui pochissimi riscontri, di solito da parte di uomini di mezza età, mentre i bambini e le vecchie matrone sembrano particolarmente ostili. La maggior parte delle donne per strada ostentano indifferenza, tranne quando vogliono vendere qualcosa: ma pare che delle uova bollite siano tutto quello che le venditrici ambulanti abbiano da offrire.

 

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Scambio alcune frasi con delle signore anziane sedute al sole, intente a intrecciare fili dai colori fluo per farne dei ‘pompon’ che applicano ai loro elaborati copricapi tradizionali – Evviva, queste qui mi sorridono! Una di loro mi lascia anche fotografare le sue mani al lavoro: mi hanno fatto pensare a quelle di mia nonna con l’uncinetto. Ma la nostra amicizia di pochi minuti si conclude con la solita richiesta di spiccioli – Ci rimango un po’ male, perché tendo a non considerarmi la solita turista da spennare; ebbene, lo sono. C’è poco da fare, l’ho capito presto: molti qui sono poveri e vivono del turismo assistenzialista dello stato. Con i neonati sulle spalle, le donne lavorano duro tutto il giorno in casa e fuori, nei campi, nei pochi negozi, negli ancor più rari ristoranti. “Che tamade (c***o) hai da sorridere, straniero, con le tue scarpette nuove e la tua macchina fotografica, mentre io devo raccogliere la legna in montagna, spazzare il cortile, dar da mangiare ai maiali (che grufolano liberi sul selciato), arare il terreno, spennare galline, badare a questi mocciosi sporchi, che sembrano degli animaletti pure loro…”

 

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Il secondo giorno mi sveglio prima dell’alba per andare a vedere le terrazze con questo strambo gruppo. Ci sono Roberto, italiano trapiantato a Parigi, Xiaolei e Arthur, coppia sino-francese: i tre sconosciuti divenuti miei compagni di viaggio ieri pomeriggio. Si aggiunge anche Olivia, ma nel dormiveglia non capisco nient’altro di lei. Me ne allontano presto per restare con la bruma del mattino e i miei pensieri, mentre le risaie diventano rosa. All’appuntamento a un generico ‘tramonto’ non ci incontreremo mai.

La luce dell’alba cambia ogni manciata di secondi, e io non sono esattamente una provetta fotografa, meglio sedersi e godersi lo spettacolo.

 

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Dopo la colazione, mi incammino senza una meta precisa. Decido di lasciare la strada principale per seguire un sentiero che si arrampica sulla montagna. Il sentiero diventa una scia di pietre sconnesse, poi solo roccia nuda scavata dai passi tra l’erba. Cammino, il sole è caldo, le vacche brucano in equilibrio sui ripidi pendii ai miei fianchi. Mi giro e scatto una foto, casomai non ricordassi la via del ritorno; ecco, questo bivio, sì, le due collinette, ci passo in mezzo e da lì si riscende. Il sentiero sale fino alla cima, da cui si abbraccia la valle immensa con i villaggi e le terrazze, gradini minuscoli e luccicanti, e poi si rituffa per un po’, per poi collegarsi a decine di altri picchi in un percorso di monti verdi che sembra infinito!

 

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Dopo un tempo che non saprei dire ma pare lunghissimo pure lui, decido di tornare indietro. Non si sa mai, comincio a essere stanca. Lungo la discesa incrocio persone che raccolgono legna o erbe, con la gerla sulle spalle, vecchi con i bufali al pascolo, qualcuno mi offre una prugna gialla e dura – stavolta quasi tutti sorridono. Sarà che non sembro più una turista laowai (*straniera), accaldata come sono, felice in mezzo all’erba; sarà che ho in testa questa specie di turbante arancione per proteggermi dal sole, e forse mi hanno scambiata per una cinese di una shaoshu minzu (*minoranza etnica)…

Sarà. Riparto lasciando un pezzetto di cuore anche a questo posto.

 

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